TRA STORIA E TRADIZIONE DI CUCINA, UNA SAPORITA RICETTA DI COLLINA VASTESE
Le Sagne Appezzate
Fra le ricette classiche della cucina vastese – sia marinare che contadine -, ha ridestato un insolito interesse una pietanza umile della collina vastese. Di origini pressoché povere – alludiamo a cultura delle origini e tradizioni gastronomiche locali -, le cosiddette sagne appezzate meritano, tuttavia, una buona citazione come riferimento tipico della tavola montanara.
Ma, per comprendere meglio la portata della ricetta e penetrarne i robusti contenuti sensoriali, occorre servirsi del dettaglio di cottura e di preparazione; soprattutto perchè ha visto coagularsi nel tempo, attorno ai suoi innegabili contenuti di tradizione e di apporto nutrizionale ma anche di aspetti dialettali, la decisa attenzione di un nome altisonante come quello di Gianluigi Beccaria.
Il quale celebra, addirittura, gusto e parola, dando il titolo ad un suo recente ed accattivante libro: Misticanze, che parte da presupposti notoriamente linguistici, ma che risulta essere un trattato di gustosa iperbole culinaria.
Insomma, per la felicità di chi ama gastronomia e relativa…cultura, fino all’uso sopraffino del lessico di casa, il vernacolo domestico – mai fuori della venerata memoria per le nostre nonne in cucina -, le sagne appezzate costituiscono, inoltre, un richiamo antico pure per la conoscenza del nostro territorio, allorchè onde raggiungere l’alta collina vastese e cioè l’habitat nativo di tale specialità, bisognava prenotare la celebre carrozza di Frangische ‘Mmassciáte (Francesco Muratore) per il viaggio piuttosto impegnativo fuori porta, dunque non proprio una passeggiata.
In breve, l’oggetto reale della nostra comunicazione un pochino cólta (una volta tanto), è l’anziano desinare di tipo «antiquo», chiamato storicamente li sàgne a lu cuttéure (lasagne cotte e condite direttamente nel caldaio o paiolo, cioè lu lapìje del celebre dialetto vastese), consistente in un energetico primo piatto, originario della tradizione cucinaria di Castiglione Messer Marino.
(E qui, tra parentesi, intendiamo evitare volentieri certe false trascrizioni dialettologiche, piuttosto ridicole, in quella sfera risaputa della non cultura di certa cucina non solo locale: per dire, in sovrappiù, ma senza voler annoiare nessuno che, nella comprensoriale Dogliola, li ‘ndurcinille risultano essere le vastesi tanto prelibate scrippèlle – corrispondenti a deliziosi fritti natalizi -, mentre il glossario ortodosso di riferimento gastronomico vuole che tale lemma dialettale indichi gli squisiti budellini d’agnello agglomerati nel sugo di pomodoro!…singolare, no?).
Catiglione, è una graziosa cittadina del comprensorio vastese – di cui una canzone dialettale a dispetto, dice: …e li fémmene di Caštijjóne/fànne li pènne sènza sapóne/…sciùvel’annànze e sciùvel’arréte/sbàtte lu cule sópr’a li préte…-, della alta collina ocidentale (in realtà, il borgo è ben più noto per aver dato i natali ai genitori emigrati dell’asso argentino Manuel Fangio, pluri-campione automobilista degli Anni Cinquanta), e la vivanda risulta essere piatto a base di grossolane lasagne fatte in casa, con farina di grano duro e condite col greve condimento che si dice di seguito (ingredienti canonici coloratissimi), pur nella rigida assenza del pomodoro. Caratteristica folklorica locale vuole che esse vengano consumate prelevandole con le nude mani dal cotturo ancor bollente. Infatti, narra la tradizione – attinente a branca oleografica, piuttosto ricorrente nella negata civiltà agro-pastorale dei luoghi: in realtà, si tratta di usanza pressoché sacrale che oltrepassa i fini gastronomici puri e semplici -, che verso la fine dell’Ottocento, un gruppo di castiglionesi, dopo essersi recato al cosiddetto Mulino dell’Asinello (alle locali scaturigini del piccolo fiume Sinello) per ragioni contingenti, rimase bloccato dalla neve caduta in abbondanza; si racconta che non avendo troppe cibarie in dispensa da offrire nella sfortunata occasione, la moglie del mugnaio – fornita, tuttavia, di spirito pronto e generosamente altruista -, si mettesse subito ad ammassare una buona dose di farina, acqua e sale: per ricavarvi delle sagne le quali, «subito dopo essere state grossolanamente ritagliate, furono lessate al dente e condite amalgamandole con l’altrettanto grezzo intingolo – tuttavia fortuitamente ghiotto, data la sfavorevole congiuntura per sfamare alla buona tutta l’estemporanea brigata -, a base di salsiccia piccante affettata, insaccato di fegato nero e pancetta soffritti con strutto; abbondante peperoncino in polvere, anch’esso piccante di preminenza nativa, ossia i soli elementi annonari di consueta provvisione «calorica» per il forzato isolamento invernale» (assieme, va aggiunto, alla celebre ventricina che costituisce una volonterosa variante da «innovazione locale», in luogo della già greve salsiccia assortita, già menzionata come ingrediente); e qui non poteva mancare la pennellata di sano eccesso popolare in cui quello di marca montanara conserva ed esalta tuttora il sapore del mito: «esse furono mangiate» – vuoi per accentuare il carattere di occasionalità salvifica, vuoi per incensare di gestualità frenetica la rimediata e provvidenziale pietanza -, «prelevando le sagne con le nude mani, ognuno secondo i propri insoliti ma comprensibili appetiti di vorace occasione, dal doppiamente scottante cotturo: cioè, prima per il calore del fuoco e poi per quello a brucia-lingua degli ingredienti, ancor più cucènde degli stessi tizzoni!». Va, infine, detto che semplici altre forme di pasta fresca parenti strette delle sagne – chiamate pure «‘ndernáppe, ‘ndrucciulune, sagnattaccùne, tròccoli, stracciune, taccunèlle, ‘ndrocchie (perfino ‘rindròcele d’altra area, ma senza parlar di maccheroni alla chitarra)» e via dicendo, sono diffuse a mano salva per tutta l’ampia sfera comprensoriale -, così altrettanto primitivamente elaborate, anche se persiste per esse il vanto tradizionale, tutto sommato piuttosto informe perché solarmente dedito a celebrare una sensorialità da bomba calorica d’epoca, oggi ridotta a sagra di paese -, e dai risvolti pseudo-culturali quasi immutabili. Per onestà storico-alimentare, tuttavia, diviene problematico intravvedere una pur lontana parentela con i precetti del caposcuola insigne Pellegrino Artusi: con tutta la buona volontà del caso, non è possibile ignorare che quel luminare della sana cucina di casa, aveva prodotto un intero capitolo-appendice intitolato Cucina per gli stomachi deboli, anche se tutto questo non può urtare la buonafede di chi si nutre ancora all’antica, riproponendo con passione le vecchie tradizioni cucinarie di popolo.
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(Pino Jubatti)