La «Festa di Pasqua» nella tradizione vastese
Raccontare che cosa accadeva in prossimità della Santa Pasqua di un tempo – almeno tra religiosità, aspetti di cucina e tradizioni popolari – è diventato piuttosto curioso: per esempio, parlare del suono delle campane, allorché venivano attaccáte (legate) il giovedì santo, secondo liturgia cristiana, appare quantomeno oleografico; il suono delle campane era sostituito da quello, per la verità alquanto sgradevole e poco solenne di lu tricchettràcche (denominazione onomatopeica per il frastuono che quell’attrezzo produceva): si trattava di un articolato arnese in legno e ferro che alcuni incaricati parrocchiali portavano in giro per la città, manovrandolo in modo da produrre il rumoroso avvertimento alla popolazione che era l’ora delle funzioni: l’avemmaria, il mezzogiorno, ventunore, ventiquattrore, oltre a messe, altri riti religiosi e perfino agli orari di la cambanèlle della scuola.
Una volta di più era l’occasione per rinverdire la feroce rivalità tra le chiese e relativi parrocchiani di San Pietro e di Santa Maria: in quest’ultima si tenevano le cosiddette «lezioni», una specie di rappresentazione scenica, affollatissima, delle varie fasi della Crocifissione, commentata da predicatori famosi: l’episodio della flagellazione appariva piuttosto cruento con il concorso dei molti giovani della parrocchia che si dedicavano con vigore all’atto delle vattiture, attraverso folte frasche e ramaglie d’occasione.
Di particolare atmosfera suggestiva – stavolta da parte della parrocchia rivale di San Pietro – era la «processione del Cristo Morto» che usciva il venerdì santo sul tramonto e al buio, rotto solo dalla fiammella dei ceri che illuminavano i volti dei partecipanti, in cui i figuranti vestiti di rosso della Congrega del Sacro Monte dei Morti, fornivano drammaticità aggiuntiva al lento corteo: e le due densissime ali di fedeli, aggiungevano solennità. I sommessi canti d’accompagnamento, come lo Stabat Mater facevano il resto. Un tempo, questa processione faceva li pusáte (le soste) in corrispondenza delle abitazioni di notabili della città; mentre – tornando a Santa Maria – la devozione per la Sacra Spina si espandeva il giorno dopo con grande partecipazione (con un pizzico di curiosa superstizione pi’ vidé’ puppá’ la Sanda Spine), a chiusura dell’altra processione, quella della Madonna Addolorata, uscita dalla chiesa di San Francesco di Paola.
Le campane che annunciavano la Resurrezione si «scioglievano» la tarda mattina del sabato santo, e al loro festoso suono, ab antiquo tutti si abbracciavano e si baciavano commossi del ritrovato amore di significato fraterno: il contrario cioè di quanto avviene oggi in cui l’aggettivo è stato svalutato.
A pranzo si consumavano i grossi gravìule dolci al ragù e le più solenni abbuffate a base di carne, in cui prevaleva quella di agnello nelle più svariate versioni; ma erano li dugge (dolciumi) a farla da padroni, dopo la scorpacciata stagionale di cicerchiate: ai ragazzi si regalava «il cavallo» (che nel tempo ha prodotto l’accoppiamento, sul fianco, dell’uovo sodo e magari colorato) e alle ragazze «la pupa», trattata alla stessa maniera oppure involgarita con decorazioni e significati liberatori di popolo; entrambi «i dolci propiziatorii» venivano realizzati in domestica e rigorosa pasta di cioccolato. Gli adulti, meno formalisti e più ghiottoni – malgrado la ritrovata tenerezza…cristiana -, concludevano il convivio pasquale con il più raffinato dei dessert, il fiadone fatto con ricotta e con formaggio fresco, quello severamente salato e solo glassato di leggero (‘ngilippáte) o, al massimo, spolverizzato di zucchero a velo.
L’indomani era tutto dedicato al cosiddetto Pasquone, la Pasquetta di geografia allargata: ma questa è tutta un’altra coinvolgente storia…
(Pino Jubatti)